La chiamai Love Mix ’87.
Un titolo che ambiva a diventare una grande storia d’amore e invece rimase solo la prova schiacciante del mio eccessivo ottimismo adolescenziale.
La feci per lei, e la storia andò più o meno così.
C’ero io, il mio stereo portatile e un pomeriggio estivo di agosto.
L’avevo conosciuta in spiaggia; faceva parte del gruppo di amici, quello che in poche settimane si sarebbe sparpagliato ai quattro venti.
Ognuno sarebbe tornato alla propria casa, alla scuola, ai compiti, alle sveglie all’alba e alle chiamate sul fisso che cadevano sempre occupate.
La vedevo ogni giorno, ma già sentivo che il tempo ci stava tirando la maglietta per le maniche.
Fu allora che successe.
Un giorno eravamo al bar della spiaggia, a mangiare un Cucciolone.
Lei rideva leggendo la vignetta stampata sul biscotto, una di quelle battute così brutte che diventavano geniali per sfinimento.
La mia, ovviamente, diceva una cosa tipo: «Se vuoi fare colpo… prova domani.»
Un presagio. Che l’Algida aveva capito molto prima di me.
Lei mi guardò e, con la naturalezza di chi lancia bombe atomiche senza accorgersene, mi disse:
«Se fossi una canzone, quale saresti?»
E io, che non ero mai pronto alle domande giuste, risposi tipo:
«Boh… forse una traccia nascosta. Così, se non ti piace, puoi sempre far finta di non avermi sentito.»
Non rideva quasi mai, ma lì lo fece.
Quella risata mi mise in testa l’idea di farle una cassetta.
Non una semplice lista di canzoni, ma una dichiarazione mascherata, una specie di codice segreto tra chi si vuole bene senza saperlo dire.
Scelsi chirurgicamente i brani uno a uno:
– qualcosa che parlava di confusione sentimentale
– qualcosa che parlava di cuori intrecciati
– qualcosa che parlava di correre via (per sicurezza)
– e infine una canzone lenta, lunghissima, perfetta per far finta di non guardarsi negli occhi
C’erano:
– With or Without You degli U2
– Never Gonna Give You Up (che all’epoca non era ironica: era un impegno a vita)
– Time After Time di Cyndi Lauper, la regina delle pause imbarazzate
Ci misi un giorno intero a farla.
La metà del tempo la passai a recuperare il nastro che si era attorcigliato nel rullo.
Il mio cuore pure.
Quando gliela consegnai dissi solo:
«È un mix. Per… boh, quando vai a scuola.»
Lei la prese, la rigirò tra le dita, guardò il titolo scritto male sul foglietto e disse:
«Perché si chiama Love Mix? È un po’… impegnativo.»
Mi sentii morire.
Le risposi:
«Ho sovrascritto una vecchia musicassetta di mia sorella. Mi ucciderebbe se lo scoprisse!»
Non era vero.
Per niente.
La parte buffa?
Provò subito la cassetta nel suo walkman.
A metà della prima canzone il nastro si attorcigliò come una pianta rampicante.
Segno che l’universo stava già ridendo di me.
Una metafora perfetta: in quel momento il mio cuore era contorto esattamente come quel nastro.
L’estate finì a breve, e ci separammo nel modo tipico degli anni ’80: nessun messaggio, nessun follow, niente like.
Solo la distanza, e quella malinconia leggera che si mette sulle spalle come una felpa quando comincia a tirare vento.
Anni dopo ho capito che certe storie non sono fatte per riuscire: sono fatte per restare in testa, proprio come quelle musicassette che, anche rotte, non riuscivi a buttare.
E oggi, quando guardo questa t-shirt, mi ricordo che a volte l’amore è esattamente così:
un groviglio.
Che però suona benissimo.